Riportiamo l’intervento di Massimo Belandi, AD di Fraternità Giovani sul tema delle Baby Gang sul Giornale di Brescia.
Nessuna ricetta ma tanto ascolto dagli adulti
Ascolto è la parola d’ordine, o meglio la prima azione da compiere per affrontare fenomeni che sempre hanno due volti: quello dell’autore del gesto deplorevole, se non addirittura del reato; e quello della vittima che deve farci i conti anche quando «tutto è passato». Commentando i recenti fatti di Molinetto di Mazzano, dove due ragazzini di 11 e 13 anni sono arrivati a ferire con una pietra un diciassettenne, e dove un’intera comunità si è dichiarata «in ostaggio» di bulli e vandali, Massimo Belandi (educatore, amministratore delegato della cooperativa Fraternità Giovani), cerca di evitare qualsiasi luogo comune. Premette di occuparsi per lavoro di ragazzi con problemi neuropsichiatrici, che vuol dire moltissime cose, ma non necessariamente comportamenti come quelli che purtroppo si registrano non soltanto a Molinetto. E gli viene quasi più naturale fare riferimento alla sua esperienza di padre di cinque figli tra i 17 e i 25 anni («siamo quasi fuori all’adolescenza, ma non si finisce mai di stare col fiato sospeso…») per dire che «oggi i ragazzi sono esposti a bombardamenti di ogni tipo ma soprattutto a un modello di “uomo forte”, a un contesto di aggressività diffusa. Subiscono inoltre le attese di genitori che non vogliono essere delusi dalle loro prestazioni. Come se fossero già adulti, mentre devono ancora maturare a livello emozionale. Una contraddizione, quest’ultima, che si riscontra anche nell’uso delle nuove tecnologie: tecnicamente sono preparatissimi, ma sono sempre dei ragazzini; il risultato è che fanno delle stupidaggini e… si filmano. E chi, per motivi sociali e culturali, si trova in una condizione marginale, può assumere atteggiamenti rischiosi. Che poi è un modo, sbagliato, per entrare in contatto con gli altri». Un esempio su tutti: l’assunzione di droghe o alcol come mezzo per essere accettati dal gruppo. Generalizzare, ovviamente, non si deve. Anche nel gruppo, per dire, ognuno ha la sua storia. Così come non esistono «ricette» per risolvere situazioni problematiche. «L’ideale sarebbe che la comunità se ne accorgesse non solo nell’emergenza, che solidarizzasse davvero con le vittime, che fosse educante nei confronti di tutti i suoi giovani». Come? «Ascoltandoli, perdendo tempo con loro, tenendoli all’interno delle regole. Oggi gli adulti sono molto spesso impegnati nella loro realizzazione personale: non significa che fosse meglio prima, ma di sicuro questo sottrae tempo alle relazioni, invece preziosissime soprattutto nei primi anni di vita».
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