Marzo 2017, Petrizzi (CZ): un tredicenne cerca di farsi un selfie sui binari con un treno in arrivo, finendo travolto e ucciso.

Ottobre 2017, Texas: una ragazza di 16 anni, di rientro in auto da una festa con gli amici, si toglie la cintura di sicurezza per scattare un selfie e muore nel testa-coda dell’auto pochi minuti dopo.

Maggio 2018, Torino: un ventenne annega in un torrente nel tentativo di scattarsi un selfie nell’atto di saltare una cascata.

Settembre 2018, Sesto San Giovanni (MI): un giovane di 15 anni, salito con gli amici sul tetto di un centro commerciale per scattarsi un selfie, muore precipitando per 25 metri in una condotta di aerazione.

La lista potrebbe essere molto più lunga. La tendenza che si definisce del “selfie estremo” è spesso identificata come una ragazzata, un gioco, una sfida. Ma si tratta di un fenomeno di portata ben diversa, che causa il ferimento o la morte di un numero sempre maggiore di giovani e giovanissimi: Secondo i dati dell’Università Carnegie Mellon della Pennsylvania, i morti per un selfie sono 170 all’anno e il numero è destinato ad aumentare.

 

Cosa c’è dietro a questo bisogno di mostrarsi e di farlo in situazioni sempre più pericolose?

La moda del selfie è nata solo pochi anni fa, ma ha travolto tutti – imprenditori, personaggi dello spettacolo e persone comuni, adulti e adolescenti, di qualsiasi età e cultura – ottenendo, nel 2014, il titolo di parola dell’anno ed entrando nelle pagine dell’Oxford Dictionary e – un anno dopo – dello Zanichelli.

Prima di proseguire il discorso è bene fare una precisazione: il selfie e l’autoscatto non sono la stessa cosa. La differenza sta nelle finalità dell’azione: l’autoscatto serve alla persona che lo realizza per conservare il ricordo di un evento; il selfie viene invece immediatamente postato sui social media e ha lo scopo di mostrarci agli altri, di condividere una situazione. Non si tratta di un’epidemia di narcisismo, ma dell’evoluzione della nostra ricerca di riconoscimento sociale: il tentativo di dare agli altri un ritratto di sé il più possibile positivo fa parte della natura umana. Nel corso degli anni, però, la diffusione dei social network e la possibilità di essere sempre connessi, di comunicare rapidamente, hanno modificato profondamente il nostro modo di parlarci. E di raccontarci. Le immagini hanno rapidamente sostituito le parole nel racconto di sé, perché più veloci da produrre e più intuitive da comprendere: nell’epoca dei social e reality show, l’auto-realizzazione passa dall’essere il più visibili possibile e di esserlo in modo positivo e accattivante: mi vedete, quindi sono.

L’abitudine al selfie non è dunque necessariamente malsana: le fotografie sono un veicolo di comunicazione estremamente potente e sono anche una “memoria digitale” che può aiutarci a tracciare la nostra storia personale e a farci diventare, nel tempo, più consapevoli di noi stessi. Ma può diventare problematico, fino a sconfinare nel disturbo mentale, quando a cercare queste conferme attraverso il selfie sono persone in condizioni di particolare fragilità, come chi soffre di depressione o come gli adolescenti. I giovanissimi sono particolarmente esposti al rischio perché la loro identità è fragile. Il nostro sistema limbico – la parte del sistema nervoso che controlla, tra l’altro, l’emotività e i comportamenti – si definisce completamente intorno ai vent’anni; anche per questo da un lato hanno una minore percezione del pericolo, dall’altro sono portati a cercare conferme dagli altri e in particolare nel gruppo, a cercare di piacere agli altri suoi membri e di colpirli. E nell’era della comunicazione per immagini lo fanno (anche) inventando sfide estreme e scattandosi foto in situazioni sempre più “epiche”, pertanto pericolose.

I rischi di questi comportamenti sono molteplici: oltre a quello più manifesto di farsi male fisicamente o restare addirittura uccisi, il selfie può portare all’incremento degli episodi di cyberbullismo. A volte infatti, anche per via della scarsa percezione della portata delle nostre azioni nel mondo virtuale, i commenti generano un circolo vizioso destinato a sfociare in manifestazioni di odio e aggressività.

 

Prevenire l’attrazione per il selfie estremo

E’ possibile prevenire in qualche modo l’attrazione per il selfie estremo e, in generale, per le sfide pericolose che nascono tra gli adolescenti? I genitori possono contribuire allo sviluppo di un corretto rapporto tra i propri figli e il selfie seguendo alcuni accorgimenti: eccone alcuni, mutuati dal Centro Studi di Pepita Onlus che si occupa di disagio adolescenziale.

  • Abituarli sin da bambini a usare e vivere il gioco come uno strumento di relazione;
  • Cercare sempre il dialogo con loro, facendo attenzione però a rispettare i loro tempi e spazi;
  • Prestare attenzione a comportamenti anomali e segnali di sofferenza: quando si chiudono in camera troppo a lungo, non escono con gli amici, cambiano umore;
  • Vigilare sui loro profili social e con loro concordare tempi e modi di utilizzo, stabilendo insieme regole, ricordando loro che siete voi genitori gli intestatari del contratto e i proprietari dello smartphone e l’utilizzo da parte loro e una vostra concessione;
  • Cercare il dialogo anche con i loro amici per parlare insieme attorno a un tavolo e comunicare stabilità e fiducia;
  • Cercare l’alleanza educativa con docenti a scuola, condividendo la responsabilità educativa senza demandarla – cosa che potrebbe consentire ai ragazzi di giocare sulla distanza tra le parti per evitare il dialogo

 

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